La famiglia e le altre attività





Nel 1944 Giuseppe Moro si fidanzò con Maria Tolot, una ragazza di Vittorio Veneto che l'anno successivo divenne sua moglie e dalla quale ebbe tre figli maschi e una femmina. La primogenita Mirella, nacque nel 1945; i figli Alberto e Maurizio, nati rispettivamente nel 1947 e nel 1952, sono stati calciatori a livello dilettantistico. L'ultimo figlio Flavio, nacque nel 1967. Suo cugino Ruggero Moro è stato ciclista professionista tra la fine degli anni trenta e l'inizio degli anni quaranta.
Trasferitosi a Roma nel 1953, si rovinò la vita, cadendo nelle tentazioni che la città gli offrì. Si comprò una fuoriserie, cominciò a frequentare i night e a giocare a poker, sperperando molti soldi. A Porta Pia comprò per otto milioni e 500 000 lire un bar, la cui gestione fu fallimentare: trovatosi costretto a lasciarlo in conduzione ad un amministratore, perché rientrato in Veneto, la vigilia di Natale 1956 scoprì che l'immobile era stato affittato e poco dopo il locale chiuse per una truffa, portando a Moro un buco complessivo di oltre quindici milioni.
Il suo uso poco accorto del denaro lo portò a ritrovarsi, poco dopo il termine della carriera professionistica, con soli cinque o sei milioni di lire e una casa a Treviso, che fu costretto a vendere, dovendo mantenere moglie e figli senza un lavoro. Nello stesso periodo trovò una squadra di terza divisione fuori Treviso dalla quale percepiva 25 000 lire mensili, ricoprendo i ruoli di giocatore (attaccante) e allenatore. Nel 1958 Arturo Silvestri, allenatore del Treviso, gli propose di fare il suo secondo per 30 000 lire mensili, incarico che accettò. Nella stessa stagione 1958-1959 fece anche l'osservatore per il compaesano Gipo Viani, direttore tecnico del Milan, su concessione del presidente del Treviso Tesser; esperienza che non durò a lungo per alcune incomprensioni sugli acquisti.
Nuovamente senza lavoro, si rassegnò a vendere caramelle nei paesini della provincia; in quel periodo giocò anche per il Matteotti, squadra dilettantistica di Ponte di Piave, dove parò l'ultimo rigore della sua vita. Nel 1960, tramite amicizie, andò a Porto Sant'Elpidio, nelle Marche, per allenare il San Crispino in quarta serie, scendendo in campo in tredici occasioni, percependo 50 000 lire mensili. La stagione successiva gli fu raddoppiato lo stipendio. Al termine della seconda annata non fu riconfermato. Quindi nell'estate 1962 decise di dare l'esame per allenatore al Centro tecnico di Coverciano.
Dopo la prova di educazione fisica, passò a quella tecnica, dove trovò Alfredo Foni, suo allenatore alla Sampdoria, mentre all'esame di medicina non si fece trovare preparato e fu rimandato. Moro, depresso, in grandi difficoltà economiche, pensò al suicidio: scrisse una lettera ad Aldo Bardelli, confidandogli di volersi sparare; quest'ultimo gli rispose subito, scongiurandolo di non fare pazzie, promettendogli che avrebbe parlato con il presidente della federazione. Nel frattempo il San Crispino, dopo quindici giorni di sommosse dei tifosi e firme raccolte, decise di reingaggiare Moro per altri due anni; non godendo di ottimi rapporti con giocatori e dirigenti, Moro accettò controvoglia, solo per estrema necessità di denaro. Nell'agosto 1964, in preda alla disperazione, si rivolse alla Federazione a Roma e alla stessa AS Roma, in cerca di lavoro, senza fortuna.